Il contratto di mantenimento non è disciplinato dal Codice Civile ma la dottrina lo definisce come il contratto con cui una parte conferisce all’altra il diritto di esigere vita natural durante di essere mantenuta, quale corrispettivo dell’alienazione di un bene mobile, immobile o della cessione di un capitale.
Tale contratto fa sicuramente venire alla mente il contratto di rendita vitalizia ma si differenzia da quest’ultimo principalmente per il contenuto della prestazione di mantenimento che si concretizza, oltre che in una serie di obblighi di dare, anche in una serie di obblighi di facere quali ad esempio l’assistenza personale e la compagnia.
Nella maggior parte dei casi il contratto di mantenimento viene stipulato tra familiari ma può essere concluso anche con persone estranee. In generale, la scelta del soggetto tenuto alla prestazione avviene sulla base di un rapporto di fiducia esistente tra le parti, rapporto che rende insostituibile per il beneficiario la persona dell’obbligato.
Caratteristica essenziale del contratto di mantenimento è l’aleatorietà legata non solo alla durata della vita del beneficiario della prestazione di mantenimento ma anche alle sue necessità che possono cambiare nel corso del tempo, ad esempio a causa dell’invecchiamento o del peggioramento del suo stato di salute.
Per evitare eventuali impugnazioni del contratto è bene che lo stesso sia quanto più possibile dettagliato; è bene specificare gli obblighi di assistenza e verificare che le prestazioni a carico delle parti siano caratterizzate da omogeneità e proporzione per escludere un uso distorto di tale figura contrattuale.
In un contratto di mantenimento è opportuno prevedere una clausola risolutiva espressa che in caso di inadempimento degli obblighi di mantenimento preveda lo scioglimento del contratto stesso.
A differenza di quanto accade nell’ipotesi di immobili oggetto di donazione che possono essere soggetti all’azione di riduzione da parte dei legittimari lesi nella quota di legittima, il bene oggetto di contratto di mantenimento non rientrerà nell’asse ereditario.
Una questione che può nascere nella prassi è quella relativa alla possibile caduta in comunione del bene oggetto di trasferimento nel caso in cui l’obbligato sia coniugato in regime di comunione legale dei beni.
Una prima soluzione proposta è quella di incasellare il fenomeno nell’articolo 177, comma 1, lettera c), del Codice Civile, a norma del quale costituiscono oggetto della comunione i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati ancora consumati (c.d. comunione de residuo).
Altra tesi, sostenuta da autorevole dottrina e giurisprudenza, sostiene che la cessione di un bene a compenso di un’attività separata non possa considerarsi come acquisto di un “provento” ma debba considerarsi come “investimento” del compenso cui si aveva diritto e il bene è, conseguentemente, destinato a cadere in comunione immediata ex art. 177, comma 1, lettera a), del Codice Civile, a norma del quale costituiscono oggetto della comunione gli acquisti compiuti dai due coniugi, insieme o separatamente, durante il matrimonio, con esclusione di quelli relativi ai beni personali. Tale tesi si fonda sul fatto che i beni in questione non possono essere compresi tra i beni che l’art. 179 del Codice Civile definisce “beni personali” e dunque bisogna ricondurli agli acquisti oggetto di comunione immediata ai sensi dell’articolo 177, comma 1, lettera a).
In virtù di quanto detto, per i beni ottenuti in corrispettivo della prestazione di mantenimento si pone l’alternativa tra la caduta in comunione de residuo e la caduta in comunione immediata ma, in ogni caso, per escludere il bene dalla comunione, attuale o de residuo, è necessario l’intervento nel contratto di mantenimento del coniuge non obbligato alla prestazione.
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