Il trattamento di fine rapporto (TFR) trova la sua disciplina nell’art. 2120 del Codice Civile, norma modificata dalla legge n. 297/1982 che ha sostituito alla vecchia indennità di anzianità il TFR.
Il trattamento di fine rapporto rappresenta quella parte di retribuzione cui il lavoratore subordinato privato o pubblico ha diritto in caso di cessazione del rapporto di lavoro al fine di superare le eventuali difficoltà economiche connesse a tale cessazione; all’indennità in oggetto, infatti, si riconosce una funzione previdenziale e assistenziale.
Una domanda che spesso gli eredi del lavoratore si pongono è: a chi spetta il TFR in caso di morte del prestatore di lavoro?
Per rispondere al suddetto quesito occorre distinguere l’ipotesi del decesso del lavoratore in attività di servizio dall’ipotesi del decesso del prestatore di lavoro dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
La norma cui fare, anzitutto, riferimento è l’art. 2122 del Codice civile rubricata “indennità in caso di morte”. La norma, al comma 1, prevede – tra altro- che il TFR in caso di morte spetti al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado.
Riguardo al termine “coniuge” occorre precisare che in tale nozione non rientra il vedovo o la vedova cui sia stata addebitata la separazione.
Poi, l’art. 1, comma 17, legge 76/2016, intitolata “regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” ha stabilito – tra l’altro – che, in caso di morte del prestatore di lavoro, il trattamento di fine rapporto deve corrispondersi anche alla parte dell’unione civile.
Dunque, nel caso di morte del dipendente in attività di servizio, il trattamento di fine rapporto compete ai soggetti espressamente indicati nelle suddette norme. Da quanto detto consegue che è possibile prevedere la destinazione del proprio TFR attraverso un testamento solo qualora al momento del decesso il lavoratore non abbia né coniuge, né figli, né parenti entro il terzo grado a suo carico, né affini entro il secondo grado a suo carico.
La giurisprudenza è consolidata nell’affermare che i superstiti sopra indicati acquisiscono il diritto all’indennità in caso di morte iure proprio, in forza di un diritto loro attribuito dalla legge, e non già iure successionis; di conseguenza la corresponsione del TFR è indipendente dall’accettazione dell’eredità e la ripartizione dello stesso, se non vi è accordo tra gli aventi diritto, deve farsi secondo il bisogno di ciascuno.
In mancanza dei suddetti soggetti, l’indennità è attribuita secondo le norme della successione legittima; in tal caso, dunque, l’acquisto dell’indennità avviene iure successionis.
La previsione legislativa che individua i beneficiari del TFR in caso di morte del prestatore di lavoro opera solo nel caso di decesso del lavoratore in attività di servizio, mentre non opera se l’evento morte è successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.
Nel caso di decesso del lavoratore a seguito della cessazione del rapporto di lavoro il TFR entra a far parte dell’asse ereditario e deve essere corrisposto agli eredi legittimi e/o testamentari in base agli ordinari principi che regolano la successione.
Un’ultima precisazione occorre farla relativamente al coniuge divorziato al quale l’art. 12-bis della legge 898/1970 riconosce, sussistendo determinati presupposti, il diritto ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Giurisprudenza e dottrina ritengono che tale diritto spetti anche nel caso di cessazione del rapporto di lavoro per morte del lavoratore.
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